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Intervista ad Antonio Giampietro, autore del saggio "Sergio Solmi critico militante"

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solmitridimdi Antonella Squicciarini

Il nome di Sergio Solmi si lega a quello di grandi poeti e intellettuali del Novecento, a titoli di riviste che hanno segnato tappe fondamentali nella vita letteraria del secolo. Antonio Giampietro, dottore di ricerca in italianistica, con il saggio pubblicato da Stilo editrice nella collana “Officina” (Sergio Solmi critico militante – un itinerario nella letteratura italiana del Novecento), ricostruisce il percorso di crescita del critico attraverso la letteratura a lui coeva, passando per le opere e i fermenti che hanno animato la lirica e la prosa contemporanea. È l'autore a parlare del suo libro su Solmi, che – come ha riconosciuto lo stesso Giampietro – ha rappresentato un modello per la propria formazione di studioso.

Tu leghi l’attività del critico all’idea di militanza. Qual è il valore del termine ‘militante’, che compare anche nel titolo?

« Non sono d’accordo con chi afferma che Solmi non può definirsi ‘critico militante’. A mio avviso c’è un difetto di fondo in questa affermazione, che consiste nell’intendere ‘militante’ sinonimo di fazioso, politicamente schierato. Invece Solmi è militante, citando Daniele Maria Pegorari, nel senso che è un attento osservatore, un testimone della realtà in cui vive, ed è anche capace di cogliere dalla letteratura contemporanea e dalla società le manifestazioni più significative. La militanza è capacità di osservare la realtà e coglierne l’essenziale, che serve o a lui per costruire un itinerario letterario – e lui nella propria vita ha costruito un itinerario letterario del Novecento – o per notare le manifestazioni più eminenti della società e letteratura contemporanee. Solmi è attento recensore e immediato testimone di tutte le opere importanti che vengono pubblicate. Solo per fare un esempio: è stato lui a spingere Montale a pubblicare le prime poesie su Primo tempo. Non è un recensore passivo, non racconta solo dell’opera, ma riesce a coglierne ciò che è all’origine, il percorso che ha portato l’autore al suo compimento».

«La critica non è qualcosa di sistematico, almeno per me che non ho mai avuto tempo di fare delle cose serie, delle cose ponderose. Sono troppo vecchio per fare critica come lo fanno i semiologi, gli strutturalisti, i linguisti». Quindi, cosa ha significato la critica per Solmi, dal momento che non si definisce un critico professionale? Come fa critica Solmi?

«Nel non riconoscersi come critico sistematico, Solmi non vuole dire che non vi si applichi sistematicamente, ma afferma il proprio approccio antisistematico, contro i sistemi. Infatti, nonostante si sia formato sulla critica di Croce, si oppone a questo aspetto del pensiero crociano, sistematico per eccellenza. Solmi non ha mai avuto bisogno di fare critica per avere un lavoro, non è stato professionale perché ha avuto un posto fisso in banca, e ha potuto concepire la critica come una passione più che una professione: la critica per lui è un’avventura. Non è professionista della critica, ma è un uomo che ama la lettura prima di tutto, quindi la letteratura. Lui dice: “Leggi un libro dalla prima all’ultima pagina, sempre”. Anche sul tram il suo occhio fugge a guardare il libro, il giornale dell’altro passeggero, per spiare, o a leggere le insegne per strada: è attratto dalla lettura in una maniera fatale. Mi ricorda l’intervista fatta a Borges, in cui gli viene chiesto: -“Ma quando ha letto il suo primo libro?” –“Da che mi ricordi, ho sempre letto”. Così è per Solmi: per lui la lettura è congenita».

Soprattutto nel rapporto con Montale emerge come il critico, Solmi, sia davvero investito di una autorevolezza che gli permette di collaborare all’opera d’arte, trasferendo all’autore stimoli effettivi. Pensi che adesso il critico possa avere un ruolo di questo tipo, o debba solo accontentarsi di un ruolo autoreferenziale, promozionale, passivo?

«Solmi usa per Montale la parola ‘congeniale’, per indicare la sintonia che si crea tra critico e autore. Oggi questo rapporto non è possibile, o lo è solo in pochissimi casi, perché esiste un meccanismo della produzione letteraria che vizia tutto il circuito. Spesso l’autore scrive una determinata opera perché deve attrarre un certo uditorio, o la casa editrice dà delle linee che lui deve seguire per contratto; altre volte perché lo stesso critico sa che a determinati critici piace una certa opera, e così indirizza il proprio modo di scrivere sui recettori. La letteratura oggi è una dimensione molto complessa, viziata da tantissime variabili. La società della comunicazione mediatica, che non è solo internet, ma anche la tv, ha modificato il modo di fare letteratura, tanto che non c’è più una Repubblica delle Lettere dove ci sia sintonia tra critico e autore, dove questo rapporto non sia un rapporto di furbizia o lucro, perché il critico vuole compiacere l’autore e viceversa. Sembra che le opinioni contino di più dell’opera stessa, e che sia più importante costruirsi il consenso, che fare qualcosa di un certo spessore letterario. È come se ci fosse un doppio binario su cui corre la ricerca del consenso fra pochi adepti: da un lato gli autori affermati e i critici che cercano di sfruttarli per farsi promozioni, e dall’altro quei critici affermati che gli autori sfruttano per farsi conoscere».

Solmi, parlando a proposito di Cecchi, riconosce una forte connessione fra il proprio ruolo di artista e critico, e riconosce che questo legame finisce per creare una «poesia del critico». Credi che queste due nature possano davvero trovare un punto di incontro, o piuttosto c’è il rischio che la natura artistica prevarichi sull’opera che si deve giudicare?

«Io ho studiato Solmi, e prima di lui Serra, anche per questo legame artista-critico. Qui c’è la differenza tra critico e saggista. Solmi non è un critico: Solmi fa saggi, e io nel libro lo definisco sempre il ‘saggista’. Leggendo la scrittura di Solmi ti rendi conto di come il suo fare critica sia comporre un’opera d’arte: lui appassiona chi legge, e questo avvantaggia, perché le sue idee, anche complesse, penetrano, e si sciolgono nell’anima del lettore, che riesce ad arrivarci sia con la testa che col cuore».

A te che hai una fine sensibilità poetica (Giampietro ha pubblicato una raccolta di poesie, Ma tu sei il vento, per Sentieri Meridiani, Foggia 2009, ndr.), pongo la stessa domanda che si pone Solmi nel saggio «Della grandezza», senza però aspettarmi una risposta ultimativa: «può la poesia esercitare ancora la sua presa di possesso sul mondo?».

«Io penso di si. Bisogna che però i poeti imparino ad essere consapevoli della propria capacità di scrittori. Spesso quando si fa poesia oggi si perde il contatto con la realtà, perché si pensa che la realtà non sia all’altezza, e che quindi chi fa poesia viva in un mondo dorato. Bisognerebbe mantenere il contatto con la realtà, sempre consapevoli che la parola può modificarla. Questo è un atto di fede che fanno poche persone, ma che va fatto. Dalla mia esperienza e da quello che ha fatto Solmi nella sua vita ho imparato che bisogna arrivare direttamente alle persone nella realtà, perché il mondo oggi è immerso in una virtualità totale, come direbbe Jean Baudrillard, in un simulacro di simboli che si rincorrono. Il poeta è colui che ti porta a riscoprire l’essenza, l’innocenza, la primordialità, e quindi per assurdo ti porta attraverso le sue parole a contatto con la realtà. Forse il poeta può rappresentare il ponte per tornare ad avere un contatto diretto con il concreto».

Ci vuole coraggio per fare poesia, ma ce ne vuole anche per pubblicare un’opera poetica o – come in questo caso – di critica. In una realtà editoriale che punta con più entusiasmo sulla quantità che non sulla qualità, va di sicuro segnalata la cura che la Stilo dedica alla produzione saggistica di spessore di critici anche esordienti (il volume di Giampietro inaugura una nuova fase delle opere pubblicate in “Officina”, che saranno sottoposte d’ora in poi ad un comitato scientifico composto da prestigiosi italianisti nel mondo). E se si ha ancora qualche dubbio sul senso e sul ruolo della critica, a fugarlo, oggi come allora, si possono richiamare le parole di Debenedetti (in Saggi critici): «Trascorsi gli anni, mutati i gusti e i criteri di giudizio, quando le migliori scoperte e definizioni di un critico, per tornar valide, debbono essere rielaborate in termini più attuali, cosa sopravvive di tutto il suo lavoro? – Ma proprio lo spettacolo, sempre tonico ed esaltante, di un uomo che, con le buone o le cattive, prende per il collo un altro uomo e lo costringe a sputar le sue ragioni».


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